“L’esercito italiano nato dalla resistenza non ha nulla a che vedere con i crimini del fascismo…”
“L’esercito italiano nato dalla resistenza non ha nulla a che vedere con i crimini compiuti dal fascismo durante la guerra. Tantissimi militari presero parte alla liberazione del paese e tanti continuarono a servire la repubblica democratica dopo”. A parlare è il presidente dell’Anpi Viterbo Enrico Mezzetti, quasi ottant’anni dopo l’8 settembre 1943 quando l’esercito italiano si dissolse, senza più ordini né comandi, di fronte all’invasione dei nazisti.
“Un rapporto – spiega Mezzetti – quello tra esercito e difesa della democrazia, solido e duraturo. Ultimamente la stessa Anpi Viterbo è stata coinvolta dallo stato maggiore nelle ricerche di materiale utilizzato poi per la mostra al Vittoriano di Roma dedicata ai crimini di nazisti e fascisti nel corso del secondo conflitto mondiale”.
“Ad esempio – prosegue il presidente dell’Anpi – i militari italiani che dal 1943 al 1945 hanno combattuto con i partigiani di Tito contro i nazisti in Montenegro vennero poi inquadrati nell’esercito e inviati a presidiare Viterbo. Dopo la guerra la divisione si trasformò in reggimento Garibaldi, nome che conserverà fino al 1976”. Una storia, questa, raccontata nel libro dello storico della resistenza e del fascismo Eric Gobetti che nel 2018 ha scritto un libro per l’editore Palermo. Il titolo: “La resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro 1943-45”.
Dal libro, a pagina 143, salta fuori quanto segue: “A partire dall’8 marzo 1945, gli italiani sopravvissuti a un anno e mezzo di guerra partigiana, vengono caricati su una nave della marina inglese che per qualche giorno fa la spola tra Dubrovnic e Brindisi. Il primo approdo viene accolto dalle autorità locali accompagnate dal sottosegretario Mario Palermo e da Giovanni Battista Auxilia, il primo comandante. La divisione Garibaldi, schierata al completo viene passata in rassegna il 16 marzo da Umberto II di Savoia, luogotenente del regno dopo il recente ritiro del padre Vittorio Emanuele III. Giunti in Italia i garibaldini vengono trasferiti in un campo raccolta vicino a Taranto, dove rimangono in quarantena per circa un mese. E’ l’ennesima delusione per chi, da anni, attende il m0omento di rientrare a casa. D’altronde in Italia la guerra non è ancora finita. Rivestiti con armi e divise inglesi, a metà aprile i reduci del Montenegro vengono inviati come truppe di presidio a Viterbo. Qui arriva la notizia della fine della guerra che fa trasformare la divisione in reggimento Garibaldi, nome che conserverà fino al 1976″.
Quindi, chi ha combattuto con Tito i nazisti in Montenegro finì poi a Viterbo. Un altro tassello che si va ad aggiungere alla storia della resistenza partigiana che ha caratterizzato oppure attraversato la Tuscia negli anni della guerra civile e della seconda guerra mondiale in Italia. Tra queste anche la figura dell’operaio Nello Marignoli che, prima di tornare a Viterbo dal conflitto, dopo l’8 settembre e il collasso dello stato monarchico entrò nell’esercito di liberazione della Jugoslavia, X Brigata Herzegovaska, con la quale prese parte ai fronti di Dubrovnik, Mostar e Sarajevo.
“Molti soldati italiani – sottolinea Mezzetti – entrarono nella resistenza jugoslava facendo innanzitutto una scelta antifascista. Scelta che ha caratterizzato da quel momento in poi, a partire anche da Cefalonia e porta San Paolo a Roma, tutto l’esercito italiano. Quello della repubblica democratica e del reggimento Garibaldi. Quello che non ha nulla a che fare con le stragi dell’esercito regio in Etiopia. La distanza tra l’esercito della repubblica italiana e quello regio è netta. Il primo ha combattuto per la libertà e ha costruito e difeso la democrazia, il secondo no. Finché non è arrivato l’8 settembre e gli ufficiali, come uomini, hanno scelto da che parte stare, scegliendo di resistere a nazisti e fascisti”.
Daniele Camilli
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Ricordo di Valerio Verbano
Sono passati ormai 41 anni dalla morte di Valerio Verbano.
L’ho conosciuto nel ‘79 e ne ho un ricordo vivissimo. Lo vedo come se fosse ora, mezzo sdraiato sul divano di casa mia, con la sigaretta in bocca, mentre discutiamo, con altri compagni, su come difendersi dal fascismo estremamente aggressivo di quegli anni. C’erano i “diversamente fasci” di Terza Posizione (la CasaPound dell’epoca); i NAR, gruppo armato terribilmente violento; c’era il MSI, non ancora sdoganato e radicato in alcuni quartieri romani.
E c’era il “Movimento del ‘77” che proprio da un’aggressione fascista all’Università di Roma aveva preso il via.
Attivista militante, appartenente all’area dell’autonomia operaia, Valerio è stato ucciso con un colpo di pistola da tre uomini armati che si erano introdotti a volto coperto nella sua casa, e avevano immobilizzato i genitori del 19-enne aspettando il suo rientro.
La causa dell’omicido è da ricercarsi nel lavoro di controinformazione sugli ambienti dell’estrema destra che svolgeva da tempo. Nonostante le lunghe e ripetute indagini, e la rivendicazione dai parte dei fascisti dei Nar, gli assassini n on sono stati mai identificati.
La vicenda è raccontata nella pagina di Wikipedia:
https://it.wikipedia.org/wiki/Omicidio_di_Valerio_Verbano
Anche quest’anno, il 22 febbraio di ogni anno, un lungo corteo ha attraversato i quartieri di Monte Sacro, Valmelaina e il Tufello. Tanti giovani e giovanissimi, e anche uomini e donne di ogni età; studenti, immigrati di diverse provenienze, i centri sociali, gli attivisti contro il razzismo e per la solidarietà, il sindacalismo di base, i movimenti di lotta per la casa; e L’ANPI, naturalmente, col suo striscione.
Quest’anno è stato inaugurato un grande murale in ricordo di Valerio. L’opera, realizzata da Jorit, street-artist napoletano, è stata finanziata dal III Municipio e dalla Regione Lazio, e raffigura il volto del ragazzo sulla facciata dell’Istituto professionale “Federico Cesi”.
“Il volto di Valerio porta la sua presenza nella quotidianità e nella vita di ogni giorno. È un monito fortemente antifascista” ha dichiarato Giovanni Caudo, Presidente del III Municipio, che ha aggiunto: “Il murale è il suggello di una serie d’iniziative che l’anno scorso, nel 40ennale della morte di Valerio hanno portato in piazza circa trentamila persone.”
Durante l’inaugurazione un pensiero è stato rivolto a Carla, la mamma di Valerio, scomparsa nel 2012, impegnata per tutta la vita a chiedere giustizia per l’uccisione del figlio.
Chi muore giovane, rimane giovane per sempre. Forse per questo ci sono sempre così tanti ragazzi alle sue manifestazioni: Valerio è uno di loro, ancora oggi.
Pieruigi Ortu
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Viterbo – Il presidente provinciale dell’Anpi punta il dito anche contro il senatore Fusco e il deputato Rotelli: “Sull’irruzione squadrista on line all’Orioli hanno preferito tacere”
Enrico Mezzetti: “Se il Giorno della memoria diventa un santino non serve più a niente”
di Daniele Camilli
Presidente Mezzetti, considerate le difficoltà dovute all’emergenza Covid e all’impossibilità di organizzare eventi in piazza oppure in presenza, secondo lei il Giorno della memoria non rischia di diventare la giornata del ricordo del ricordo della Shoah?
“Certo che rischia di diventarlo. Il Giorno della memoria rischia di essere un ‘santino’ e basta. Si tratta di evitarlo, nei limiti delle proprie forze. Se il Giorno della memoria diventa un ‘santino’ allora non c’è dubbio che non serva più a niente. E’ difficile. Oggi è difficile, e tutte le parole rischiano di essere buttate al vento. Se non si riesce più a provare orrore allora effettivamente serve a poco”.
L’Anpi a quali iniziative prenderà parte?
“Ogni anno partecipavamo all’iniziativa dell’Istituto Fantappie davanti all’abitazione a Porta della Verità da cui furono deportati 3 ebrei viterbesi nei campi di sterminio nazisti. Quest’anno purtroppo la Fantappie non ha potuto fare un’iniziativa pubblica. So che faranno un incontro, ma all’interno della scuola e senza coinvolgere nessuno. Questa è la realtà del momento, l’epoca del virus in cui viviamo. Questa sera (ieri ndr) riuniremo la segretaria dell’Anpi provinciale per vedere a quali iniziative aderire. Con i mezzi di comunicazione consentiti”.
Quest’anno il Covid ha costretto a rinunciare a tanti momenti commemorativi oppure a ridurne la portata. Secondo lei quanto ha pesato il Covid nel mantenere viva la memoria di eventi o tragedie che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese?
“Ha pesato in maniera enorme. E su questo non c’è dubbio. Le forme attraverso cui si muovono le relazioni democratiche sono state spezzate, interrotte. Ultimamente si sta sviluppando una forma di comunicazione democratica. Un surrogato all’interno del quale poi si inserisce quello che viene definito Zoombombing. Un episodio lo abbiamo avuto di recente all’Istituto superiore Francesco Orioli qui a Viterbo. Ma ci sono stati tantissimi altri episodi. Gruppi organizzati clandestini che irrompono all’interno di eventi on line, captandone i link e si inseriscono con insulti, espressioni oscene oppure inneggiando a Mussolini. Come è successo all’Orioli…”
Una forma di squadrismo on line…
“Sì, sono forme di squadrismo on line. E credo anche che su questo sia necessario intervenire in maniera drastica e senza indulgenze. Ultimamente, senza fare nomi, proprio qui a Viterbo abbiamo avuto anche esaltazioni della X Mas da parte di personalità che rivestivano pure ruoli istituzionali. Con tanto di faccia tosta quando poi dicono che si tratta di espressioni goliardiche, scherzi, ironia. Tutto questo deve essere respinto. E vorrei che le forze politiche, specialmente quelle di destra, perché chi fa queste cose si ispira alla destra, su questi temi fossero chiari. Si dissociassero nettamente. Esprimessero giudizi severi. Non avallassero l’idea che si tratti di ‘goliardate’. Altrimenti il tutto porta a maggiore degenerazione. Qui si tratta di resistere cari miei”.
Come si racconta la memoria della Shoah a studenti che da quasi un anno si trovano a dover apprendere le cose dietro a uno schermo?
“Ci sono delle chiavi di lettura che secondo me sono valide pure in questo momento. La prima è la storia. La storia che ha riguardato i nostri genitori e i nostri nonni. Ha riguardato il nostro Paese poco più di 70 anni fa. Questa storia la dobbiamo raccontare e abbiamo il dovere di farlo. E non è solo la storia del 27 gennaio 1945 quando l’Armata Rossa buttò giù i cancelli di Auschwitz. E’ la storia del 16 ottobre 1943, con la deportazione degli ebrei romani, è la guerra civile, le leggi razziali, la marcia su Roma, l’omicidio Matteotti, i pieni poteri a Mussolini. E’ la storia del fascismo, che si è poi intrecciata a doppio filo con quella dei nazisti. Entrambi responsabili degli orrori della guerra e dello sterminio nei campi di concentramento. Tutto questo deve essere conosciuto. Il passato non passa mai. Nel presente bisogna vedere le differenze e le somiglianze. Gli elementi in comune con il passato per poterli poi, per quanto riguarda la Shoah, contrastare”.
E quali sono, secondo lei, gli elementi che collegano il presente al passato che ha portato allo sterminio?
“Ad esempio la ricerca del nemico e del complotto. L’emergenza fasulla costruita attorno alla cosiddetta invasione degli immigrati. Oppure la richiesta dei pieni poteri per il capo. Sono elementi che ti rimandano al periodo fascista. La ricerca del colpevole che poi alla fine è sempre il soggetto debole che deve essere colpito. Senti persino parlare di sostituzione etnica. E la gente gli va appresso, mentre altri ci costruiscono attorno vere e proprie carriere politiche. Tutto questo usando lo strumento dell’emergenza. Questa è l’attualità. Discutere della Shoah non è come discutere delle guerre puniche. Discutere della Shoah significa parlare di vicende che ci riguardano da vicino, giorno per giorno. Perché quello che è accaduto può accadere di nuovo. Certo, farlo in epoca di pandemia è molto più difficile. Ma non dobbiamo mai smettere di cercare gli elementi che ricollegano il presente alla realtà che portò allo sterminio. Senza mai dimenticare gli elementi culturali, quelli che formano appunto una cultura, la mentalità di un popolo. E oggi sembra proprio di rivedere nella mentalità italiana chiari elementi di fascismo che la caratterizzano. Soprattutto quando si parla di immigrati. Un serbatoio di odio che prima o poi può esplodere. La situazione è difficile, la rabbia cresce e crescono anche il bisogno di trovare un capo e al tempo stesso un capro espiatorio. Il fascismo non è affatto un discorso scontato. E gli elementi di analogia tra il presente e il fascismo ci sono. Eccome se ci sono”.
A proposito di emergenza, c’è anche chi dice che l’emergenza Covid sia un’invenzione. Tra questi ci sono i negazionisti…
“Se si parla di ‘invasione degli immigrati’, quella è un’emergenza artificiale, una paura creata a tavolino da politici irresponsabili. La pandemia invece non è un’emergenza inventata. E’ un’emergenza reale. Io ho avuto il Covid e sono stato dimesso il 12 aprile, il giorno di Pasqua. La sera ho ricevuto una telefonata di un signore che, senza sapere del mio ricovero, mi chiamava per farmi gli auguri di Pasqua. A un certo punto mi ha detto: ‘ma la sente avvocato ‘sta cazzata del Covid?’. ‘Guardi signore – gli ho risposto – io sono stato dimesso 20 minuti fa per il virus e sono la persona meno adatta a sentire questi cazzo di ragionamenti’”.
Non crede che il comune di Viterbo, a parte il messaggio agli studenti del sindaco e la scelta personale di Arena di portare un mazzo di fiori a Porta della Verità, abbia fatto ben poco per celebrare il Giorno della memoria?
“Il comune? Mi sbaglio o al comune ci stanno la Lega e Fratelli d’Italia? Loro avrebbero dovuto essere in prima fila. Così come avrebbero dovuto essere in prima fila a denunciare l’irruzione squadristica all’Istituto Orioli. Avrebbero dovuto essere loro i primi a parlare. Il senatore della Lega Umberto Fusco e il deputato di Fratelli d’Italia Mauro Rotelli. Loro dovevano intervenire di fronte a queste irruzioni e a questi segni di violenza che richiamano il fascismo. Ma hanno deciso di tacere. Apprezzo invece la scelta del sindaco Arena di portare un mazzo di fiori a Porta della Verità“.
Secondo lei perché avrebbero deciso di tacere?
“Bisognerebbe chiederlo a loro. Ma secondo me su queste vicende non intervengono mai”.
Perché?
“Perché c’è un problema di voti? Perché poi la gente che fa queste cose, come l’irruzione all’Orioli, poi vota per loro? Perché chi ha deciso di tacere lo ha fatto per non perdere voti? Perché quella è una parte del loro bacino elettorale?”
Tuttavia anche da parte della sinistra o del centrosinistra viterbesi non è che ci siano state prese di posizione nette…
“La sinistra se a Viterbo esiste questo non lo so. Se la sinistra c’è batta un colpo”.
Daniele Camilli
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27 gennaio, Giorno della Memoria
In questo ultimo anno, gravato dalla tragica esperienza della pandemia da Covid-19 che ha rivelato tutta la fragilità e precarietà sanitaria, economica e sociale anche del nostro paese, è necessario che la Celebrazione del Giorno della Memoria sia occasione di una profonda e articolata riflessione sulla necessità di riconoscere che esiste una sola umanità e che ogni discriminazione tra le persone che hanno diversa provenienza, credo religioso, orientamento politico e sessuale, diverse disponibilità economiche deve essere sempre respinta e contrastata se si vuole celebrare nel concreto il Giorno della Memoria.
È l’indifferenza, il tacito lasciapassare che uccide, che ha permesso e permette guerre, violenze, soprusi, sfruttamento delle persone e delle risorse del pianeta. È l’indifferenza che ha permesso le atrocità inumane che ricordiamo il 27 gennaio di ogni anno rievocando l’abisso più profondo della storia recente raggiunto dal cuore e dalla mente umana.
Per questo la legge 211/2000 ha istituito il 27 gennaio – data della liberazione dei sopravvissuti dal campo di sterminio di Auschwitz – Giorno della Memoria, perché non si dimentichi lo sterminio del popolo ebraico, la deportazione politica e militare, le leggi razziali fascisti , i peggiori crimini commessi da nazisti e fascisti nella seconda guerra mondiale, e perché si ricordino anche quanti ebbero il coraggio di opporsi alle persecuzioni, alla barbarie, allo sterminio degli innocenti.
Richiamare il testo e lo spirito della legge è una necessità vitale e un dovere. Non c’è memoria senza rispetto della storia e la storia ribadisce in primo luogo la tragica unicità della Shoah, dello sterminio razziale, della macchina di morte che ha potuto essere messa in atto non solo per volontà di Hitler e dei suoi criminali collaboratori, ma anche perché schiere di obbedienti esecutori hanno schedato gli ebrei, li hanno catturati, hanno guidato i convogli verso i lager, mentre altri preferivano girare la testa e non vedere. Le responsabilità non sono solo della Germania nazista, ma anche dell’Italia fascista.
Il Giorno della Memoria ci deve far riflettere sulla storia dell’Italia di quegli anni e sulle rimozioni che tentano ancora di cancellare dalla memoria collettiva la responsabilità di governi e istituzioni. La monarchia e il regime fascista, con leggi razziali del 1938 volute dal dittatore Mussolini, privarono di ogni diritto gli ebrei, favorirono la loro discriminazione e la successiva deportazione nei campi di sterminio in piena collaborazione con i nazisti.
Il Giorno della Memoria ci impone di ricordare tutte le vittime della persecuzione politica e razziale, gli oppositori antifascisti, i partigiani deportati e assassinati, i civili razziati e ridotti in schiavitù, gli zingari e gli omosessuali portati alla morte, i bambini, gli handicappati. Ricordiamo anche i militari italiani assassinati (massacro di Cefalonia) o fatti prigionieri e costretti ai lavori forzati per aver rifiutato l’adesione alla Repubblica di Salò e la collaborazione coi nazisti.
Razzismo, ingiustizia, diritti umani negati, popoli interi annientati da guerre nascoste e dalla fame, dal mancato accesso alle cure e alle vaccinazioni per le malattie infettive, e ora anche per il Covid-19; migranti respinti, che muoiono in mare o nei lager, sovvenzionati con i soldi della vecchia Europa, sono i nuovi orrori che si consumano oggi sotto i nostri occhi spesso in una indifferenza sempre più diffusa e complice.
Celebrare realmente il Giorno della Memoria significa quindi impegno per la giustizia, la pace, il disarmo nucleare, il rispetto dei Diritti umani per tutti gli esseri umani, la salvaguardia della salute e dell’ambiente.
È questo oggi il rinnovato impegno antifascista nel Giorno della Memoria.
ANPI – Comitato Provinciale di Viterbo
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«Quello che te dico, è poco…»
Vince l’ANPI, Libero condannato per diffamazione
16 Luglio 2020
Il Tribunale di Milano ha accolto la domanda risarcitoria dell’ANPI nazionale – patrocinata dall’Avvocato Ettore Zanoni – per due articoli pubblicati l’1 settembre 2016 sul quotidiano diretto da Pietro Senaldi. La società editrice dovrà pagare 15.000 euro oltre alle spese legali
Di seguito, la parte conclusiva della sentenza pubblicata il 16 luglio 2020
“Il giudice, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda, istanza ed eccezione disattese, così provvede: – in parziale accoglimento della domanda principale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (Anpi), accerta e dichiara la natura diffamatoria dell’articolo intitolato “I partigiani di oggi. Senza fascisti ma pieni di soldi” e “A cosa serve l’associazione dei reduci? I fascisti non ci sono più. E l’Anpi se li inventa” sottotitolato “Per sopravvivere i partigiani arruolano i giovani e cercano nuovi nemici: pronti a cacciare chi voterà ‘sì’ al referendum”, a firma di Renato Besana, e dell’articolo “Quanto spendiamo per la ‘resistenza’. Finanziamenti, sedi e 5 per 1000: ci costano oltre 300 mila euro l’anno”, a firma di Claudia Osmetti, pubblicati sul quotidiano Libero del 1.09.2016 alle pagine 1 e 13; – condanna i convenuti Pietro Senaldi e Editoriale Libero s.r.l., in via fra loro solidale, al risarcimento dei danni non patrimoniali liquidati in favore dell’attrice Associazione Nazionale Partigiani d’Italia in € 15.000,00, oltre interessi legali dalla data di deposito della presente sentenza al pagamento; – condanna i convenuti Pietro Senaldi e Editoriale Libero s.r.l., in solido fra loro, al pagamento in favore dell’attrice delle spese del giudizio che si liquidano in € 4.035,00 a titolo di compenso, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15%, Cpa e Iva”.
Fonte: Anpi nazionale
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al Congresso dei Liberi
La Famiglia ed il Proletariato Memore”
pietro benedetti, sara grimaldi, alfonso prota, michela benedetti,
edoardo mentelli, olindo cicchetti
insieme ai compagni del comitato per le celebrazioi
di Antonio Tavani e dei moti del 1921Per Sentirci
Arditi del Popolo Viterbesi !!!
Quel 1921 stà arrivando al centenario
e noi tutti insieme, quest’anno,
ad una prova generale importante.
Quei Moti di Libertà del popolo Viterbese devono essere narrati
e ricordati, soprattutto ai giovani, che sappiamo ritrovare la forza per
difendere la LIBERTA’ , così come fecero gli Arditi a Viterbo!!!Buona Resistenza!!!
Natalino Piras – 14.6.2020
La piccola banda di Ariano
Altro che statue da abbattere il dovere dello storico è ricordare, se non altro recuperare documenti. Riprendo qui un intervento di quando ero bibliotecario.
Il 14 giugno 1944, a Castelnuovo Val di Cecina, provincia di Pisa, vicino alla località “Il Sorbo”, vengono fucilati dai nazifascisti, tedeschi occupanti e repubblichini di Salò, tre partigiani, tre uomini della Resistenza: Francesco Piredda di Nuoro, Vittorio Vargiu di Ulassai e il nobile fiorentino Franco Stucchi-Prinetti. Vargiu e Piredda sono coetanei, del 1919, Stucchi-Prinetti del 1924. Nelle stesse ore, a Villa Ginori, sede del comando delle SS, come un clone dell’infame via Tasso romana, una revolverata sparata a bruciapelo sulle tempia da un nazista mette fine alla vita di Gianluca Spinola, la stessa età di Vargiu e Piredda. Sono tutti e quattro componenti della “piccola banda di Ariano”, in quel di Volterra. Gli altri due, Bruno Cappelletti e Basilio Aruffo, hanno avuto il tempo di sfuggire alla cattura e al rastrellamento. In quelle stesse ore, sempre a Castelnuovo Val di Cecina, le SS e la guardia repubblichina fucilano 77 minatori prelevati il giorno prima dal villaggio della Niccioletta. Altri 6 minatori erano stati massacrati il 13 giugno sempre a Niccioletta.
Una storia tragica, un significativo frammento della Resistenza in Toscana, ricostruita con grandi competenza e passione da Carlo Groppi nel libro “La piccola banda di Ariano. Storie di guerra e di Resistenza”, Castelnuovo Val di Cecina, Il Chiassino, 2001 – 271 pagine.
Carlo Groppi è stato anche sindaco di Castelnuovo Val di Cecina. È proprio quel ruolo di pubblico amministratore che innesca lo spirito della ricerca in Carlo Groppi, al tempo che la Resistenza slittava nella retorica, nell’indifferenza, nella dimenticanza. Una scrupolosa disamina di fonti e documenti d’archivio ma pure l’avere senso per voci che ancora non erano state né registrate né trascritte. Che “i tre partigiani ignoti” fossero Francesco Piredda, Vittorio Vargiu e Franco Stucchi-Prinetti lo si scoprirà tre anni dopo, nel 1947, per tutta una serie di cause e concause, compresa l’ostinata volontà del patrigno di Gianluca Spinola, il colonnello Formigli, di venirne a capo. Era stata la pietà popolare, la gente di Castelnuovo Val di Cecina, sfidando nazisti e repubblichini, a dare pietosa sepoltura ai tre “partigiani ignoti”, ricavando loro uno spazio nel cimitero, vicino ai 77 minatori fucilati. Poi dimenticanza. Ha contato pure il fatto che sulla storiografia resistenziale abbia influito una certa ufficialità di sinistra, anche accademica. Groppi è persona di salde radici socialiste e comuniste. Dice che sull’oblio intorno alle gesta della piccola banda di Ariano – un autoblindo, uno scassato camioncino ma tanta arditezza e coraggio tanta voglia di combattere il nemico – ha pesato il fatto che il marchese Gianluca Spinola fosse sì uomo d’onore, partigiano, però monarchico, badogliano. C’è pure che alla riesumazione dei corpi, Gianluca Spinola e Franco Stucchi-Prinetti, cugini tra di loro, sono stati sepolti nella tomba di famiglia. Cosa impossibile per i resti mortali dei due poveri sardi nostri conterranei: pure se la loro memoria non era del tutto scomparsa né a Nuoro, né a Ulassai. Il “metodo Groppi” permette di ricomporre in insieme queste storie appartenenti all’unicum della Resistenza e al focus, in questo caso, della Resistenza in Toscana, costata molte migliaia di morti. La storia della piccola banda di Ariano è una tra le tante. Come in una concatenazione windows la vicenda dei nostri partigiani Francesco Piredda e Vittorio Vargiu porta Groppi a scoprire l’altra nobile storia del tenente Alfredo Gallistru di Ruinas, morto da partigiano, combattendo contro i nazifascisti. E altri. C’è nel “metodo Groppi” un grande afflato, un grande spirito di fratellanza con la gente sarda, il riconoscimento che i nostri eroi dimenticati e anonimi – molti continuano a esserlo – ebbero grande importanza, e nobile tratto, nella Resistenza, nella guerra partigiana, in Toscana e in altre parti dell’Italia e dell’Europa. Il “metodo Groppi” è sotteso e rafforzato da una ostinata volontà oltre che alla ricerca anche all’esercizio della memoria, al suo ritrovamento. Che è poi un voler proseguire la ricerca, continuamente aggiornarla. Dice il professor Francesco Gheradini, allora presidente della Comunità Montana Alta Val di Cecina, citando Dante, V° canto del “Paradiso”, in prefazione al libro di Groppi: “…non fa scienza,/sanza lo ritenere, avere inteso”. La Storia, la sua ricerca, continua anche grazie a gente come Carlo Groppi. Dobbiamo essergli grati.
Di questa storia ci sono tracce anche nell’utile volume “La Maremma contro il nazi-fascismo”, pubblicato nel 1973 dalle Amministrazioni Provinciale e Comunale di Grosseto “per essere diffuso gratuitamente agli studenti delle Scuole Medie Superiori della provincia di Grosseto, in occasione del 28° Anniversario della Liberazione”.
Nella foto di gruppo, da sinistra: Gianluca Spinola, Franco Stucchi Prinetti, Vittorio Vargiu e Francesco Piredda.
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Silvio Antonini – 10.6.2020
Per il 76° ann.rio della LIBERAZIONE DI VITERBO, da associare alla Giornata mondiale degli ARCHIVI.
“…Fascisti, la vostra coscienza è macchiata d’invamia: dovete scontare questo peccato davanti a Dio e al popolo puro. Volevate far risorgere un partito defunto che a rovinato tutta litalia e il mondo intero; fatevi un esame di coscienza, penzate a dani e a lutti che a subito tutta la nazione.
Fascisti.
È giunta lora di scontare i vostri peccati, quanto avete gozovigliato oltre a quanto divertimenti, quante feste e allegria alla barba del popolo. Ora è finita, purgatevi dei falli commessi; per il magior dolore ricordate i tempi felici nella miseria. Fascisti, lasciate i posti che [in]degnamente avete lasciato. Quanti uffici avete formati senza alcun utile alla nazione? Sfrutatori, latri, lavete dimostrato perché molti caporioli sono stati contannati alla pena di morte e a 30 anni di carcere. Compagni questa è laverita, la cruta realtà della mia odisea. Fascisti il mondo chiede vendetta.
Morte al fascismo e al nazismo”.
Lorenzo Fiorentini, Perseguitato politico antifascista di Canepina (Vt), Memorie.
(Archivio di Stato di Viterbo, Archivio storico dei comitati provinciali Anpi e Anppia, Busta 1, fascicolo 7, Benedetti Marino)
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L’orrore. Il 10 giugno 1942
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Silvio Antonini – 4.6.2020
“NON HO PARLATO”, RICORDANDO ANGELO IOPPI, NEL 76°ANN.RIO DELLA LIBERAZIONE DI ROMA
ANGELO IOPPI, nato a Viterbo il 4 gennaio 1904, nel 1941 diviene Brigadiere della Compagnia dei Reali carabinieri Comando della Legione “Lazio”. Con l’8 Settembre del 1943, si dà dapprima alla macchia e poi si reca a Roma, in clandestinità, e partecipa alla formazione della Banda partigiana Reali Carabinieri Filippo Caruso. Compie con essa molte azioni contro l’occupante nazifascista, tra cui il lancio di bombe contro il Carcere di via Tasso e contro una colonna di fascisti in via Tomacelli.
È arrestato, su delazione, alla Stazione di piazzale Flaminio, capolinea della Roma Nord, la tratta ferroviaria che conduce a Viterbo. Rinchiuso in via Tasso per circa 90 giorni, subisce 28 interrogatori tra le più atroci torture. Con le mani legate, costretto a mangiare il rancio direttamente con la bocca, senza che gli aguzzini riuscissero però ad estorcergli un nome o un’informazione a loro utile.
Condannato a morte, il 3 giugno del 1944, nell’imminenza dell’arrivo degli Alleati, i detenuti di via Tasso sono caricati su due camion dai nazisti. Uno parte ma si ferma per un guasto dopo 14 km, in loc. La Storta. I 14 detenuti, tra cui Bruno Buozzi, vengono fatti scendere e trucidati: i Martiri de La Storta. L’altro camion, su cui si trovava Ioppi, non riesce neanche a partire. I detenuti sono riportati dentro al carcere, quando sopraggiungeva la Liberazione. Uno dei più celebri scatti di via Tasso, ritrae un uomo che esce dall’ingresso principale, sorretto ambo le parti. È il brigadiere Ioppi, che non riusciva a tenersi in piedi per le menomazioni alle gambe causate dalle torture inflittegli.
Nel 1945 dà alle stampe Non ho parlato, Come fui ridotto dalle Ss tedesche nelle prigioni di via Tasso, rieditato nel 2014 da Minerva: il racconto della sua formidabile vicenda resistenziale, indispensabile testimonianza della Lotta partigiana a Roma e nel Lazio.
Ioppi, congedato nel 1962 col grado di Tenente, morirà nel 1984 a Roma, a ottant’anni.
Medaglia d’oro al valor militare.
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Silvio Antonini – 21.5.2020
Decenni fa, a Viterbo, in piazza dei Caduti, al Sacrario, era possibile vedere due persone parlare animatamente: due esercenti della piazza col fiocchetto nero da sovversivi, retaggio della notte dei tempi. Uno è Primo Nocilli, delle pompe funebri, l’altro ha il chiosco d’ortofrutta, ove ora è il fioraio, per cui nel 1964 conseguiva l’attestato dal Ministero dell’agricultura, “Per la migliore esposizione di patate”. E’ LUIGI TAVANI, già scalpellino, membro della Squadra giovanile degli Arditi del popolo, fratello di Antonio “assassinato per mano faziosa”, tra i fondatori della Sezione giovanile del Partito comunista d’Italia, Commissario militare della Banda partigiana Ferdinando Biferali e tanto altro. Luigi moriva 48 anni fa, in loc. Montigliano, mentre faceva dei lavori sul suo terreno. “Appassionato comunista, valoroso Partigiano”.
La scheda dal Dizionario storico-biografico Gente di Tuscia: http://www.gentedituscia.it/tavani-luigi/
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Silvio Antonini – 21.5.2020
Campigliola di Manciano, 20 maggio 1944: 76 anni fa il martirio di DELIO RICCI, di Montefiascone (Vt), Combattente partigiano della Arancio Montauto, impiccato dai nazisti, a 19 anni appena compiuti. Medaglia d’oro al valor militare alla Memoria.
La scheda dal Dizionario storico-biografico Gente di Tuscia: http://www.gentedituscia.it/ricci-delio/
La recensione di Banda Arancio Montauto, 1943-1944, La Resistenza fra Toscana e Lazio, a cura di Franco Fra Dominici e Giulietto Betti, su “Il Pane e le rose”: https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o49492
“Umro je drug Tito”.
La cifra tonda dell’ann.rio della scomparsa di Tito impone a noi delle riflessioni, soprattutto per via delle nostre miserie sull’uso politico della storia.
Durante la Grande guerra, Fronte orientale, un soldato dell’Esercito austroungarico sta per essere gettato in una fossa comune, passato da parte a parte da una lancia scoccata, a mo’ di giavellotto, da soldati russi, quando si accorgono che ancora respira, è vivo, è Josip Broz. Si dice che, per tutta la vita, Tito temerà di essere nuovamente trafitto dai russi, poi sovietci. Aldilà dell’aneddotica, le principali accuse di tirannia ed autoritarismo mossegli contro, riguardano proprio la repressione antistalinista (guai a dirlo) messa in atto con zelo durante il periodo di rottura con il Cominform (1948-55). Una repressione che si abbatté anche contro gli italiani emigrati in Jugoslavia, sovente dediti allo spionaggio a favore di Mosca. E il fatto, chiaramente, è finito nel novero dell’operazione foibe (ci mancherebbe altro!). Il Pci, del resto, in quei momenti assumeva posizioni contro Tito che non avevano moltissimo da invidiare a quelle fasciste. Si legga, solo per fare un es., “Propaganda”, il bollettino di Stampa e propaganda che aveva anche vignette da riprodurre nella stampa locale del Partito. La questione titina, tra l’altro, ebbe conseguenze anche nel Viterbese, un caso singolare che ebbe risonanza nazionale: la scissione filo-jugoslava nella Sez. Pci di Soriano nel Cimino. Sebbene ne abbia ampiamente scritto Giacomo Zolla, c’è documentazione del fatto nell’Archivio storico della Federazione provinciale Pci. Quel complesso documentale ora sta all’Archivio di Stato di Viterbo, surgelato da 15 anni. Speriamo che ci si decida un giorno a metterlo a disposizione della ricerca.
Negli anni della rottura con Mosca, la Jugoslavia socialista, dopo la devastazione dell’occupazione nazifascista, costruiva un modello economico e politico, detto Socialismo plurale autogestito. Un sistema non dogmatico, sostanzialmente ad economia mista, che ha comunque portato ad un benessere diffuso, seppur con una disparità tra nord e sud.
Per quanto il titoismo non assurgerà a rango di ideologia, per così dire, autonoma, come sarebbe, ad es., avvenuto per il maoismo, è fuori discussione il contributo jugoslavo nelle relazioni internazionali per la nascita dei Non allineati, al fine della decolonizzazione e dell’emancipazione del c. d. Terzo mondo.
Forse, la particolare esemplarità risiedeva però in politica interna, nel modello federativo tra popoli. Totale tutela dei diritti linguistici e culturali di tutte le componenti etniche, compresa quella italiana, che sotto Tito, soprattutto in Istria, vedeva una formidabile fioritura. Questa avrà sì problemi ma dopo lo sfaldamento della Jugoslavia, quando si troverà sotto la Croazia di Franjo Tudman.
Il grande interrogativo resta: come mai tutto questo patrimonio sia finito in un bagno di sangue, con l’unico sistema socialista che si dissolve con una guerra civile. Certo, fattori esterni ma una concausa è stata l’incapacità, o comunque la negligenza, nel dare seguito dopo la morte di Tito a quanto di buono si era costruito.
È presto per dare giudizi storici esaustivi sull’epilogo ma quello che è stato prima, a partire da una Resistenza tra le più formidabili ed incisive d’Europa, va difeso, dalle menzogne e dagli attacchi.
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Nel 40° ann.rio (4 maggio 1980), il Messaggio del Comitato nazionale Anpi, per la scomparsa del Presidente Tito. Nulla da aggiungere o eccepire.
“TITO
Da un paese sconfitto e invaso seppe trarre il più forte esercito partigiano e in un mondo diviso e contrapposto seppe poi raccogliere e fondere le aspirazioni dei popoli amanti della pace e della propria indipendenza nazionale.
Il mondo perde con il Maresciallo Tito uno dei più grandi e prestigiosi artefici della vittoria sul nazifascismo. Da un paese sconfitto e invaso Egli seppe trarre e forgiare un esercito partigiano e di popolo, espressione primogenita della nuova Jugoslavia. Tito è stato l’unico capo di una resistenza nazionale che ha potuto portare avanti, come capo di uno Stato giovane, socialista e indipendente, fondato sull’autogestione, l’opera titanica iniziata nel periodo della guerra di liberazione, nel corso del quale seppe fondere i popoli della Jugoslavia in un’unica espressione nazionale. Alla sua figura di partigiano guardarono con fiducia e con speranza i movimenti di liberazione di tutta Europa.
Il Maresciallo Tito, con la chiara visione di un mondo nuovo che premeva alle porte della storia, instaurando rapporti internazionali fondati sulla parità e sul reciproco rispetto e rifiutando la pretesa logica dei blocchi contrapposti, seppe raccogliere e fondere le aspirazioni de popoli tese ad obiettivi di pace e di indipendenza nazionale, ponendosi alla testa di quel vasto movimento dei non allineati nel quale si identificano le speranze di larga parte del mondo. Con questa lungimirante visione Tito ha fatto della Jugoslavia una guida politica di prima grandezza.
L’ANPI, in lutto, si affianca fraternamente ai partigiani jugoslavi, con i quali i partigiani italiani contribuirono a colmare il solco scavato dal fascismo tra i due popoli, ristabilendo rapporti di fiducia e di reciproca amicizia, consapevole dal ruolo svolto in questa azione dal Maresciallo Tito, artefice della rinascita di un Paese al quale il popolo italiano si sente legato da fraterno rapporto. Il Suo impegno politico per un mondo di pacifica e operosa convivenza è destinato ad illuminare a lungo il cammino dei popoli che identificano il loro futuro nella continuazione dell’opera di cui Tito fu l’ideatore e il realizzatore.
L’ANPI saluta nel Maresciallo Tito la massima espressione, il simbolo della Resistenza popolare europea e di fronte a Lui inchina le sue bandiere”.
(“Patria indipendente”, XXIX, 1980, 9, p. 1)
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“COMPAGNI TUTTI UNITI CONTRO LA CANAGLIA FASCISTA!”. Il 2 maggio 1921 a Viterbo, nei ricordi di LUIGI TAVANI
“Poi un giorno sentii dire che i fascisti sarebbero arrivati anche a Viterbo. Ricordo esattamente che era il pomeriggio del 2 maggio 1921. Io ed un mio coetaneo, Del Citto Felice, partimmo da Piano Scarano dove abitavamo e ci recammo a ‘Viterbo’. Giunti a piazza del Plebiscito incontrammo tanta gente: la fiumana di popolo però era a piazza delle Erbe. Noi due eravamo come quel povero Renzo dei Promessi sposi: si correva dove più era animata la discussione per capire meglio. Poi trovai un’altra infinità di amici e conoscenti, così compresi quello che volevano fare.
Ricordo i marescialli dei carabinieri Pastina e Calvani con il loro seguito, che ogni tanto intervenivano, prendevano nomi, ammonivano e arrestavano. Poi ad un tratto la fiumana di popolo imboccò le tre vie: Calabresi, Macel Gattesco e della Rimessa, che convengono al fu ponte Tremoli per riprendere via Cairoli. Gradinoro, un mio coetaneo, mi fornì un manico di pala: quest’arma doveva servirmi per affrontare i fascisti armati come briganti.
Noi ragazzi correvamo più degli altri, così giungemmo per primi in piazza della Rocca. Ivi giunti, al lato destro di detta piazza vedemmo oltre 200 persone che a prima vista a me parvero carabinieri.
Sopraggiunto che fu il grosso dei dimostranti, la voce di ‘Cesarone’ di Flaviano il pesciarolo (Oriozzi Cesare) ci incitò alla lotta dicendo: ‘Compagni tutti uniti contro la canaglia fascista!’. Partimmo all’attacco e in quel mentre quelli che io avevo creduto carabinieri, si inginocchiarono per dar modo di sparare ai fascisti che si trovavano nella fila interna dei carabinieri stessi.
Per me è rimasto un momento memorabile, anche perché in quel preciso istante sopraggiunse un camion carico di fascisti che, sparando come forsennati, ci sbandarono tutti. Qui per me rimane difficile stabilire con esattezza le cose anche e soprattutto perché la paura non mi mancava.
Ricordo con precisione che mi trovavo vicino alla fontana del Vignola; vidi un gruppo di rissanti, raccolsi un sasso (perché la piazza allora era imbrecciata), lo scagliai contro un gruppo di fascisti e all’istante sentii sibilare una pallottola che mi bruciò il berretto e sono convinto che fu la medesima che colpì il mio coetaneo Pizzichetti Comunardo, che si trovava una quindicina di metri più avanti di me.
Lo vidi cadere e con altri si raccolse e fu portato all’ospedale, poi da lontano vidi che a braccia portavano un giovanotto. Seppi poi che si trattava di Antonio Prosperoni, che lo avevano ucciso mentre ritornava dal Cimitero dove lavorava”
Questa la testimonianza di Luigi Tavani, in: Giacomo Zolla, 1936-1966, 30 anni di storia e di lotte dei comunisti di Soriano nel Cimino, Soriano nel Cimino, La Commerciale, 1972, p. 227.
Si riferisce alla sollevazione del popolo viterbese contro il comizio elettorale dell’Unione nazionale in piazza del Teatro. Le contestazioni, iniziate non appena aveva preso la parola Giuseppe Bottai, costringevano i fascisti a sciogliere il comizio e ad incolonnarsi verso la Sede del Fascio, nell’attuale via Maria Santissima Liberatrice, scortati da due cordoni di carabinieri lati. Per coprire la ritirata, in piazza della Rocca i fascisti iniziavano a sparare sulla folla. Il fatto apre un ciclo di lotte contro l’affermazione del fascismo sul territorio che potrà dirsi concluso solo dopo le Leggi fascistissime, nel 1926.
Il ricordo di Tavani è pressoché totalmente confermato dalla documentazione di archivio e di altra fonte, eccezion fatta per il camion di fascisti che giunge in piazza della Rocca sparando, circostanza ovunque riscontrata, invece, per gli incidenti del 10 luglio successivo.
Scheda biografica su Luigi Tavani
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Silvio Antonini – 1 maggio 2020
ACQUAPENDENTE, I Maggio 1922: uccisione di TORINDO ZANNONI
I primi di maggio prima del Fascismo, nella Tuscia come altrove, erano così: si festeggiavano perlopiù sottoforma di scampagnate, con pranzo, tanto vino, bandiere e canti, di solito con un corteo per il ritorno ai centri abitati. In caso di maltempo, la celebrazione si consumava abitualmente all’interno delle case del popolo o delle camere del lavoro. Durante il Ventennio si cercherà, un po’ dappertutto, di conservare, ovviamente in clandestinità, la tradizione con seguito, spesso, di arresti su spiate e delazioni. La Festa internazionale del lavoro era infatti occasione per segnali di sfida al Regime, con l’esposizione di bandiere rosse, l’affissione di manifesti, le scritte murali e la diffusione di volantini; il tutto fatto sparire immediatamente, quanto puntualmente però registrato, dalle autorità.
Quello del 1922, nel pieno del Biennio nero, fu l’ultimo Primo maggio festeggiato alla luce del sole. Da un paio d’anni ormai i signori avevano già trovato un braccio armato per contrastare la felicità e l’emancipazione della classe lavoratrice: i fascisti. E la celebrazione era divenuta oggetto diffuso di conflitto già dall’anno prima.
Ad Acquapendente quel giorno i lavoratori si erano trovati a festeggiare la ricorrenza fuori porta Romana (foto di gruppo), sennonché i fascisti, provenienti maggiormente dalle zone limitrofe, com’era prassi del loro squadrismo, compivano un raid al quale i partecipanti alle celebrazioni riuscivano comunque a tener testa. Alla fine del conflitto risulteranno 10 feriti. In serata, inoltre, l’autorità giudiziaria rinveniva nei campi il cadavere d’un uomo, con una ferita d’arma da fuoco al petto. Era Torindo Zannoni, agricoltore di 36 anni, ritornato da poco dall’emigrazione a New York. Dalle cronache de “Il Giornale d’Italia”, che elude le responsabilità fasciste nell’avvenimento, si legge delle indagini immediatamente successive, con il rilascio dei fermati. Fin qui le info riportate in Ricordi in nero, Acquapendente nel Ventennio fascista, a cura di Marcello Rossi (Acquapendente, Biblioteca comunale, Archivio storico, 2009, pp. 24-26).
Lo storico Franco Fra Dominici, che ha anche raccolto testimonianze dalla tradizione orale a riguardo – per cui Zannoni era stato assassinato per aver reagito energicamente alle violenze -, ha effettuato alcune ricerche, rinvenendo questo documento del Cln di Acquapendente del 9 luglio 1945 (foto). Vi si ricorda l’episodio, denunciando gli autori materiali del delitto. Si citano, a tal proposito, i fascisti di Sorano (Grosseto) ed Onano, “appositamente chiamati per commettere delle violenze”.
In merito alla memoria locale del Caduto: “Sul luogo del delitto venne posta una croce. Oggi questa via non c’è più ma nella zona, ormai compresa nel centro abitato, c’è via Torindo Zannoni” (Ricordi in nero, op. cit., p. 26. La foto della croce è illustrata nella pubblicazione).
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28.4.2020
Antonio Gramsci, l’uomo che odiava gli indifferenti
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“L’unico errore di Mussolini fu quello di allearsi con Hitler”.
E la marcia su Roma;
e l’assalto di Palazzo d’Accursio;
e l’olio di ricino;
e il confino per oppositori politici, intellettuali, slavi e omosessuali;
e lo squadrismo;
e le redazioni dei giornali date alle fiamme;
e la soppressione della libertà di stampa;
e il certificato di “buona condotta politica” per potersi iscrivere all’Ordine dei giornalisti;
e le leggi razziali;
e i campi di concentramento;
e la deportazione degli ebrei;
e le spedizioni contro le camere del lavoro, le case del popolo e le leghe agrarie;
e l’assassinio di Giacomo Matteotti;
e l’omicidio dei Fratelli Rosselli;
e la prigionia di Antonio Gramsci;
e i pestaggi su Piero Gobetti e Giovanni Amendola;
e la persecuzione di militanti, parlamentari, dirigenti comunisti, socialisti, azionisti, popolari, repubblicani, liberali;
e l’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato;
e l’introduzione della pena di morte per gli oppositori politici;
e il progetto totalitarista;
e il controllo dei testi scolastici;
e il giuramento di fedeltà al regime imposto agli insegnanti;
e l’abolizione dei sindacati;
e l’abolizione del diritto di sciopero;
e la soppressione del Parlamento;
e l’eliminazione dei partiti politici (eccetto uno);
e la Camera dei fasci e delle corporazioni;
e il Gran Consiglio del fascismo;
e l’invasione della Grecia;
e l’invasione dell’Albania;
e l’invasione della Jugoslavia;
e l’uso delle armi chimiche in Etiopia;
e i 12.000 cirenaici giustiziati;
e i 30.000 civili bruciati vivi, impiccati, ammazzati di botte, fucilati nel massacro di Addis Abeba;
e la deportazione nei campi di concentramento di migliaia e migliaia di libici, eritrei, somali, etiopi;
e la strage di Marzabotto;
e l’eccidio dei fratelli Cervi;
e l’eccidio di Sant’Anna;
e la Repubblica di Salò.
Buon 25 aprile. Buona Liberazione!
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Pietro Benedetti – 23.11.2020
Ogni anno in questa giornata sin dal debutto ho replicato la piéce in forma Militante, quest’anno a causa dell’isolamento vi invito a vedere lo spettacolo completo, nel video girato in occasione del suo 90° compleanno, la mattina a casa sua, grande festa con tanti amici Bosniaci, con i quali parlò sorridente nel suo Slavo_Viterbese. La sera a Roma in una iniziativa antifascista la Replica.
La storia di Nello come Partigiano inizia sulla motonave Rovigno, dove era Radiotelegrafista della Regia Marina Militare, sequestrata dai nazisti a Valona dopo il comunicato di Badoglio.
Finì prigioniero nei campi in Bosnia e poi combattente per l’esercito di liberazione jugoslavo, dove incontra gli alpini della divisione Taurinense-Dopo ha raccontato gli orrori dei nazi-fascisti e le contraddizioni sul fronte orientale.
Ora la sua storia è diventata un libro e uno spettacolo teatrale di successo.
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L’assalto al molino Tesei
In occasione della ricorrenza, sul gruppo Facebook Roma città aperta si è riaccesa la discussione su questo fatto storico, noto come la Strage al Ponte di ferro dell’Ostiense: 10 donne che stavano dando l’assalto al molino Tesei, che riforniva gli occupanti, trucidate sul posto dai nazifascisti, il 7 aprile 1944. Il Comune di Roma, in occasione delle ricorrenze dell’8 Settembre, nel 1997, a 53 anni dai fatti, ha posto un monumento per ricordare la strage. Ebbene, di questo fatto, diversi studiosi e storici, con competenza e cognizione, hanno messo fortemente in dubbio la veridicità.
Di un evento così tragico non si ebbe nota nella stampa clandestina né in quella immediatamente successiva alla Liberazione, non esiste documentazione coeva, non esistono processi svolti né familiari delle vittime che si fossero proclamati tali, in oltre cinquant’anni. Eppure questo fronte non si può dire che fosse rimasto sguarnito. Non si sa della collocazione delle salme e alla, di fatto, recente pubblicazione dei nomi, ve ne erano alcuni ancora in vita!
Pare che le uniche fonti utilizzabili siano di tipo memorialistico e, tra queste, Cuore di donna di Carla Capponi che restituisce il fatto.
La storiografia, come ogni scienza, non ha un punto fermo: la sua evoluzione, volendo semplificare, è continua, in base alla ricerca, con l’acquisizione di nuovi documenti, nuove metodologie, nuovi approcci etc. Non è perciò da escludere che domani esca documentazione a dimostrare inoppugnabilmente il fatto in questione. Ma è questo un versante cui prestare assoluta attenzione, perché sugli svarioni storici può fare leva il revisionismo strumentale ad uso politico, col fine di screditare l’intero portato della Lotta resistenziale.
6.4.2020
A FRONTE ALTA!
76 anni fa il martirio di PAOLO BRACCINI
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“[Torino] notte 3-4 aprile 44
Gianna, figlia mia adorata, è la prima ed ultima lettera che ti scrivo e scrivo a te per prima, in queste ultime ore, perché so che seguito a vivere in te. Sarò fucilato all’alba per un ideale, per una fede che tu, mia figlia, un giorno capirai appieno…”
Il 5 aprile 1944, al Poligono nazionale del Martinetto, Torino, veniva fucilato dalla Gnr, assieme ad altri sette Combattenti del Comitato militare regionale piemontese, il Comandante Verdi, nome di battaglia, nato a Canepina il 16 maggio 1907. Allontanato nel 1931 dal Corso allievi ufficiali per il suo Antifascismo, era divenuto cattedratico di Zootecnia presso l’Università di Torino. Dopo l’8 Settembre ’43 aveva fatto ingresso nella Resistenza con il Partito d’azione e quindi con le formazioni Giustizia e libertà. Veniva arrestato il 31 marzo 1944 dai repubblichini, su delazione, mentre era in una riunione del Comitato militare nella sacrestia di San Giovanni in Torino.
Quando il Capitano del plotone ordinava il fuoco, Braccini gridava: “ Viva l’Italia libera!”“. I compagni gli facevano eco.
PAOLO BRACCINI, MEMBRO DEL CLN DEL PIEMONTE, CONCORSE ALLA COSTITUZIONE DEI NUCLEI PARTIGIANI DELLE VALLI. PORTAVA LARGO E DECISIVO CONTRIBUTO ALL’ ASSETTO E AL MANTENIMENTO DELLE FORMAZIONI PIEMONTESI. SOTTOPOSTO A GIUDIZIO E CONDANNATO A MORTE CONSACRAVA CON L’OLOCAUSTO DELLA PROPRIA VITA L’ARDENTE FIAMMA CHE LO AVEVA SOSTENUTO DURANTE IL PERIODO DELLA LOTTA CLANDESTINA. IL PIOMBO NEMICO TRONCAVA
LA SUA NOBILE ESISTENZA, CADEVA SUGGELLANDO
CON ESTREMA INVOCAZIONE ALL’ITALIA LA SUA FEDE NEI
DESTINI DELLA PATRIA.
TORINO, 5 APRILE 1944.
(Motivazione della Medaglia d’oro al valor militare).
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28.3.2020
da Patria Indipendente
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Renzino, aprile 1921: la strage e la rivolta
Quelli che sono passati alla storia come “I fatti di Renzino” rappresentano metaforicamente i germogli della Resistenza in Valdichiana. L’atto da cui, venti anni più tardi, giovani e giovanissimi di questa valle decisero di lottare per la libertà e la pace, sacrificando le proprie vite. La rivolta del 17 aprile 1921 fu un atto di ribellione contro le violenze del nascente fascismo, che dal Nord Italia stava dilagando per tutta la penisola.
L’ambiente sociale in Valdichiana si rivelò, fin dai primi mesi successivi alla fine della Grande Guerra, decisamente fertile per quelle nuove ideologie che, sull’eco assordante della Rivoluzione d’Ottobre, stavano investendo il continente europeo. La maggioranza schiacciante di braccianti e contadini fra la popolazione, permise al Partito socialista di Turati di mettere solide radici in tutta la vallata chianina. In particolare, nel paese di Foiano della Chiana il Psi arrivò presto a ottenere la maggioranza assoluta nella giunta comunale.
Dopo la scissione di Livorno, dalla quale nacque il Partito comunista d’Italia, sindaco e giunta comunale aderirono alla nuova organizzazione politica, pur mantenendo una sincera collaborazione con il Partito socialista. Fu questo di Foiano della Chiana, uno dei primissimi casi in cui il Pcd’I ottenne la maggioranza in una giunta. Fondatore della sezione comunista del paese fu Galliano Gervasi, giovane falegname, definito poi nelle carte di polizia della prefettura fascista di Arezzo “Convinto ed accanito capeggiatore degli elementi più estremisti del suo paese”. Sarà la stessa persona che nel 1947, come deputato, contribuirà alla scrittura della Costituzione italiana.
Ma nello stesso periodo, un altro partito stava nascendo, spinto dall’appoggio della classe dirigente e dai proprietari italiani: il Partito nazionale fascista. In breve tempo questo manipolo di violenti venne sguinzagliato contro le leghe e i sindacati di tutta la penisola, portando con sé distruzione e morte. Divenuti “padroni” di Arezzo, i fascisti mal sopportavano la zona più rossa della provincia: la Valdichiana e in particolare Foiano, con sindaco e assessori comunisti. La mattina del 12 aprile del 1921, dopo che il sindaco e la giunta rifiutarono le minacciose e illegali dimissioni imposte dal marchese Perrone Compagni di Firenze, 150 fascisti, scortati dal regio esercito, invasero le strade di Foiano.
Vennero devastate la sezione socialista, la Camera del lavoro, la sede della Cooperativa badilanti e terrazzieri e i locali del Comune. Sfortunati passanti vennero bastonati e percossi, i genitori del sindaco e quelli di Gervasi furono minacciati. Durante tutta l’incursione le forze dell’ordine mantennero un atteggiamento accondiscendente nei confronti degli squadristi. Così, fra venerdì 15 e sabato 16 aprile, dopo le violenze e le distruzioni di pochi giorni prima, per tutelare l’incolumità dei cittadini si dimisero sindaco e giunta.
La domenica, alle cinque del mattino, partirono dal capoluogo alla volta di Foiano due camion di fascisti con 22 camicie nere armate. I fucili che avevano come equipaggiamento, furono messi a disposizione e concessi in prestito dai depositi del Regio esercito di Firenze, Arezzo, Siena e Perugia. Le camicie nere misero nuovamente a soqquadro il municipio, fecero irruzione nelle abitazioni minacciando di morte e malmenando i socialisti e i comunisti che vennero sorpresi nei loro letti. Stessa sorte toccò, ancora una volta, agli anziani genitori del Gervasi.
Nel pomeriggio a uno dei due camion fascisti di ritorno verso Arezzo, venne tesa un’imboscata da un gruppo di ribelli foianesi lungo la strada di Renzino, un piccolo borgo a due chilometri da Foiano. Allo scontro a fuoco parteciparono anche il giovane Bernardo Melacci, carismatico anarchico, e Galliano Gervasi. Colte alla sprovvista furono uccise tre camicie nere e molte altre vennero ferite.
La reazione nera non si fece attendere. La sera stessa del 17 aprile Renzino pareva tutto un incendio: moltissime case e fattorie vennero bruciate. Donne, madri e contadini furono uccisi sommariamente sulla porta di casa, davanti ai figli e alle figlie. Molti padri vennero trascinati lungo i fossi e freddati con un colpo alla testa, colpevoli soltanto di far parte di quella classe avvilita e straziata dalla Storia. La stessa che in un gesto estremo di ribellione raccolse la rabbia di generazioni antiche, che si riconoscevano fraterne nello stesso misero destino.
Arrivarono squadre di fascisti da tutta la Toscana e perfino da Roma. Il giorno successivo, nella piazza centrale di Foiano, venne istituito un “tribunale fascista” e un numero mai precisato di abitanti della zona venne giustiziato con un colpo di fucile alla testa. Nelle settimane successive processi farsa e confini vennero imposti agli organizzatori dei “fatti di Renzino”.
Quando i “ribelli di Renzino” decisero di armare i propri fucili da caccia e appostarsi nascosti lungo la strada, la loro indignazione contro questi soprusi non poteva più essere frenata. Tutte le violenze subite fecero sfociare la loro rabbia in un gesto disperato che riecheggiò per giorni sulle pagine di molti giornali italiani. Le umiliazioni, le intimidazioni e i pestaggi contro la gente contadina e operaia di Foiano fecero sfociare tutta la sofferenza e la voglia di riscatto in un gesto di ribellione armata, che può benissimo rappresentare l’atto di nascita dell’antifascismo in Valdichiana.
Le radici dell’opposizione al regime mussoliniano vanno cercate all’interno dell’ampio quadro dell’antifascismo e non limitatamente al fenomeno della Resistenza, che fu invece peculiare del biennio conclusivo della Seconda guerra mondiale. Il movimento resistenziale fu l’ultima fase di questo processo iniziato appena le squadre fasciste si mossero per reprimere con la violenza le forze politiche di sinistra.
Questa ribellione spontanea nei confronti del regime venne sedata tramite massacri e arresti. Fu così che lo spirito ribelle foianese subì un bruttissimo colpo di arresto durante i 10 e più anni in cui le menti organizzatrici dei fatti vennero mandate al confino. Dopo la caduta del regime fascista però, tutti i prigionieri politici rinchiusi nelle carceri poterono tornare ai loro paesi d’origine. Ogni rivoluzione necessita di una guida e la rivoluzione antifascista aveva bisogno proprio di questi uomini, preparati politicamente nel sostenere la popolazione indifesa, carichi di esperienza per organizzare la lotta contro il regime e istruiti durante il periodo di prigionia e confino da grandi personalità del calibro di Pajetta, Terracini, Pertini, ecc. E fu proprio grazie a questi primi antifascisti che da Foiano si organizzò la più famosa banda partigiana della provincia di Arezzo: la Teppa del comandante Licio Nencetti, di diciassette anni.
A distanza di cento anni dai “Fatti di Renzino” la sezione locale dell’Anpi di Foiano della Chiana vuole ricordare il coraggio e il sacrificio dei concittadini che si opposero per primi alla dittatura fascista. In collaborazione con il Comune di Foiano, i professori Stefano Oliviero e Ivo Biagianti e l’Anpi nazionale sono in programmazione una serie di iniziative volte alla chiarificazione della verità storica su questo cruciale evento per la provincia di Arezzo, che il regime fascista rappresentò nella propria retorica come una vile aggressione da parte di un gruppo di sovversivi. Con un programma di eventi culturali gli organizzatori intendono promuovere la storia di quegli anni e la memoria delle genti, salvata dall’oblio grazie al lavoro di Ezio Raspanti, partigiano combattente all’età di 16 anni, che ha dedicato l’intera vita alla ricerca e alla conservazione della memoria storica del territorio aretino.
Francesco Bellacci, ricercatore
23.3.2020
Silvio Antonini
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Via Rasella
La pavimentazione sfondata, subbuglio, caos, polvere e spari dappertutto, i cadaveri e i feriti a terra, i soldati tedeschi che puntano le armi verso le finestre, convinti che dall’alto siano state calate delle bombe. Così si presentava, in questi istanti di 76 anni fa, VIA RASELLA in Roma.
Alle 15,52. Rosario Bentivegna dei Gap aveva avvicinato la pipa alla miccia che portava ai bidoni, pieni non di spazzatura o di borsa nera ma di esplosivo. Sullo sfondo, il passo cadenzato e la canzone Hupf, mein Mädel (Salta, ragazza mia), man mano più vicini. È l’11ª Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment Bozen, pronta ad inquadrarsi nelle Ss per dedicarsi alla repressione antipartigiana, armata di tutto punto, in barba ai patti che imponevano Roma città aperta.
Tempo 50 secondi e si era compiuto l’atto più clamoroso e grandioso contro l’occupante nazifascista in una capitale europea. Imperdonabile. Una legittima azione di guerra, come poi stabilito dalle innumerevoli sentenze, cui seguirà, al mattino dopo, la crudele rappresaglia delle fosse Ardeatine: 335 trucidati.
È l’accadimento più remoto su cui abbia fatto perno il revisionismo strumentale, intenzionato ad infangare in blocco la Lotta partigiana. Si ricordi l’esplodere del caso Priebke, nel bel mezzo degli anni Novanta del Novecento. In un certo senso c’è da averne nostalgia, perché la risposta fu allora pronta ed efficace, sul piano culturale e politico. Quello che non accadrà, purtroppo, dinanzi all’Operazione foibe, la cui battaglia è stata lasciata alle singole realtà. Ad es., se l’Anpi nazionale, dinanzi anche ad un singolo trafiletto in cui si accusavano i Gap delle fosse Ardeatine, emetteva un comunicato stampa, dinanzi all’Operazione foibe ha poco più che balbettato. Eppure il nesso via Rasella – Ardeatine è, oggettivamente, assai meno campato in aria se messo in relazione alle idiozie ascoltate e lette sulla questione Foibe – Confine orientale.
Il revisionismo strumentale e il “rovescismo” che lo accompagna, se gettati dalla finestra sulle Ardeatine o sui reiterati tentativi di equiparazione per i Combattenti di Salò, sono rientrati dalla porta con l’Operazione foibe, accolti con tutti gli onori ed omaggiati assai più di quanto si sarebbero mai potuti aspettare.
Non si può quindi far altro che combattere su tutti i fronti, usare tutte le torri di vedetta e non lasciar sguarnita alcuna zona. Il resto è opportunismo, svendita e soggezione.
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